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“Marinai perduti”, un inno a chi non si arrende

«Solo i greci – pensa Diamantis – avevano tante parole per definirlo: Hals, il sale, il mare in quanto materia. Pelagos, la distesa d’acqua, il mare come visione, spettacolo. Pontos, il mare spazio e via di comunicazione. Thalassa, il mare in quanto evento. Kolpos, lo spazio marittimo che abbraccia la riva, il golfo o la baia…»

Jean Claude Izzo è stato una grande penna. I suoi libri sono tutti di uno spessore incredibile. Ambientati a Marsiglia, si ha la possibilità di perdersi tra i vicoli di questa città portuale e multietnica. Le sue descrizioni sono così semplici e dettagliate che in bocca si percepisce un sapore speziato e i capelli sono carichi di salsedine del Mediterraneo.

Parafrasando De Andrè “in quell’aria spessa carica di sale, gonfia di odori”. Lui parlava di Genova che, come tutte le città di porto però, sono collegate e si tengono per mano.

Tra i pochi libri che ci ha donato, a causa di una scomparsa prematura, il mio consiglio è “Marinai Perduti”.

Narra di una nave, l’Aldebaran, vecchia e abbandonata nel porto d Marsiglia a causa del fallimento dell’armatore. La storia gira attorno ai tre marinai, appunto perduti, il libanese Abdul Aziz, il greco Diamantis e Nedim il marconista.

Tre uomini che si sono consacrati al mare, lasciando amori, donne, affetti. Marinai, uomini che vivono sospesi, che galleggiano sull’esistenza fino a quando questo imprevisto non li costringe a fermarsi, a prendere delle decisioni, a rivedere tutta la loro esistenza, a decidere senza più esitazioni. Vivere è scegliere e chi non lo fa, prima o poi, sarò costretto a farlo.

Vivono una lontananza forzata dal mare che li costringe a fare i conti con le rinunce che ha comportato:

 “..la sua vita restava sul mare. In mare, e soltanto lì, si sentiva libero. In mare non si sentiva né vivo né morto. Solo altrove. Un altrove in cui riusciva a trovare qualche buona ragione per essere se stesso.”

Ogni scelta, inevitabilmente comporta delle rinunce ed il bilancio è un momento doloroso. In questa “penitenza terrena” s’intrecciano le loro profonde storie. Uomini di mare e di esperienza, uomini con la scorza dura, ma dall’animo sensibile che hanno pensato di fuggire via dalla terraferma, Ma è quando ti fermi che inevitabilmente fai i conti con te stesso e la realtà ti presenta il conto.

Un altro protagonista di questo libro è il mare, anzi direi che è il protagonista! Un “luogo” capace di rendere tutti simili, una livella sociale:

 “Sull’Aldébaran c’erano due birmani, uno della Costa d’Avorio, uno delle Comore, un turco, un marocchino e un ungherese. Abdul Aziz era libanese e lui greco. Una volta in mare chi era lo straniero, e rispetto a chi? Da quasi trent’anni navigava con tutte le razze del mondo, su tutti i mari del mondo. La questione della razza non si era mai posta”

Non un mare qualsiasi, ma il Mediterraneo:

“L’Atlantico e il Pacifico sono mari di distanza. Il Mediterraneo è un mare di prossimità. L’Adriatico di intimità.” “E il Mar Egeo?” “Quello che partorì i miti.” 

Si sentono naufragati restando sulla terra ferma e non c’è naufragio peggiore di quello della propria vita. Le domande che contano ce le facciamo sempre troppo tardi, quando abbiamo già sbagliato tutto.

Questo però permette una fratellanza tra di loro, un’apertura che difficilmente riusciamo ad avere nella vita reale. Quante volte chiediamo alle persone che ci sono accanto come stanno e realmente ascoltiamo la risposta?

“Il temporale li univa. Come in alto mare la tempesta unisce l’equipaggio. Nessun marinaio racconta mai quei momenti ai suoi famigliari. Né per lettera, né quando torna a casa. Perché non stiano in ansia. E anche perché sono momenti inenarrabili. Non esistono le tempeste. Come non esistono i marinai, una volta in mare. L’unica realtà per gli uomini è la terra. E del resto i marinai li conosciamo, e li conosceremo, solo a terra. A meno di imbarcarsi un giorno a bordo di un cargo”.

Se vi imbatterete in questo, o qualsiasi libro di questo scrittore profondo e struggente, avrete molti spunti musicali, letterari e culinari/alcolici. Io ho bevuto un bianco di Cassis, un rosè di Bandol e un Lacryma Christi. Sarete sempre con lui dalla parte dei vinti, amerete le persone che commettono errori e lo ammettono perché sono umane. Vi sentirete pervadere dallo spirito Chourmo:

 “Chourmo, in provenzale, significa la ciurma, i rematori della galera. A Marsiglia, le galere, le conoscevamo bene. Per finirci dentro non c’era bisogno, come due secoli fa, di aver ucciso il padre o la madre. No, oggi bastava essere giovane, immigrato o non. [..] Esisteva uno spirito chourmo. Non eri di un quartiere o di una cité. Eri chourmo. Nella stessa galera, a remare! Per uscirne fuori. Insieme”.

Questo spirito mi ha conquistata fino a cercarlo in tutte le mie esperienze di attivista. L’ho trovato in Giustizia per Taranto ed è il motivo per il quale mi sono avvicinata a quest’associazione e che mi fa credere che gli obiettivi che si pone siano raggiungibili insieme.

Andrete probabilmente ad ascoltare il cantautore Gianmaria Testa che lo ha musicato ed erano amici.

Lasciamoci avvolgere da quest’atmosfera, di fronte al mare la felicità è un’idea semplice.

di Alessandra Convertino