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“Persone che devi conoscere”, la straordinarietà delle storie normali

Ho concepito questo spazio per consigliare libri che ho amato, mi hanno segnata o che ho reputato come belle letture. Non so se con il tempo potrei scrivervi anche di pagine che, per mio modesto gusto personale, non valgono il successo che hanno avuto, o non mi hanno lasciato nulla.

Il libro che vi consiglierò questa settimana non è il più bello che ha scritto questa scrittrice, ma oltre a donarmi vari spunti di riflessione, mi ha acceso il desiderio di viaggiare per cercare le persone di cui parla e donato gli occhi per osservare e apprezzare quelle che conosco.

La scrittrice in questione, Michela Murgia, su di me ha sortito sempre una forte ammirazione. Ne apprezzo l’energia, i pensieri ed i modi di esporli. È una grande oratrice e più volte, ascoltandola o leggendola, mi sono detta: “ma perché non l’ho scritto io?”

Il libro è “Persone che devi conoscere”. L’autrice nell’introduzione spiega perfettamente cosa ha fatto scaturire questa ricerca. È un libro di storie, di persone comuni e storie normali, non eccezionali. In un paese che ci vede sempre alla ricerca di eroi, nei giochi televisivi del cosiddetto “X Factor”, quel quid interiore che solo pochi eletti possiedono.

“In questo meccanismo retorico nessuno ti dice che è una condanna essere l’eccezione che conferma la regola della mediocrità altrui. Nessuno ti rivela che il prezzo da pagare per essere l’eccellenza è restare per sempre quello che ce l’ha fatta nonostante gli altri. Forse il motivo per cui non le piacciono le storie esemplari è che farcela nonostante gli altri è esattamente l’idea d’inferno.”

In questo libro incontrerete Pinuccio che scolpisce la pietra, Bobore un contadino dagli occhi di un nero liquido e la pelle abbronzata di chi ha confidenza con il sole. Lui dice che il contadino è la sintesi tra un filosofo e un tecnico “senza conoscenza ti consegni in mano alla chimica, ma senza filosofia non capirai mai di avere in mano, in ogni zolla, la responsabilità del futuro di tutto”.

Conoscerete “Casamatta”, una residenza familiare in cui vivono persone affette da disturbi psichici: lì appare chiaro quanto confuso sia il confine tra ospiti e gli “altri”, riprendendo in qualche modo il pensiero di Basaglia che diceva che “visto da vicino, nessuno è normale”.

Incontrerete Iolanda Romano che è una mediatrice civica. In Italia non è una professione che ha preso piede, mentre in Francia e in America il suo mestiere è ritenuto indispensabile per la qualità della vita democratica. Il suo ruolo è quello di gestire le tensioni fra soggetti che devono prendere decisioni pesanti (istituzioni, amministrazioni locali, grandi imprese) e i cittadini che devono subire le conseguenze delle scelte. Iolanda dice

“In Italia non esiste il concetto di partecipazione civica; un’idea distorta di democrazia rappresentativa fa credere a molti politici di aver acquisito con l’elezione il diritto di scegliere senza più negoziare. E poi c’è un dato culturale: gli italiani sono convinti che cambiare idea sia segno di debolezza di carattere; così si finisce per stare fermi sulle proprie posizioni senza incontrarsi mai”.

Alla domanda su cosa bisogna fare affinché s’inneschi anche in Italia questo processo, lei parla di una legge che esiste in Francia dal 1995 che obbliga le istituzioni e le amministrazioni ad aprire un dibattito pubblico su ogni opera che supera il valore di trecento milioni di euro. Funziona? Non sempre, ma ha cambiato la mentalità di tutti, più trasparenza dall’alto e più responsabilità dal basso.

Poi Salvatore Striano, che ha quarantatré anni e a 18 fu arrestato per la prima volta, poi ha scelto un cambio di rotta, gli si è presentato il bivio. E’ andato avanti, eppure indietro è tornato. Non ha scelto un bel quartiere di una città del Nord. Salvatore è tornato nei quartieri spagnoli “Napoli non è la camorra e io l’ho offesa con il mio comportamento: quando hai fatto un danno, vai a riparare dove hai fatto il danno. Io voglio stare dove ho sbagliato perché è lì che devo dimostrare a me stesso e a loro che si può ricominciare a vivere diversamente.”

Non voglio aggiungervi altri personaggi con le loro storie, vi ho donato un assaggio di qualcuno. Nessuno di loro è speciale, come dice la Murgia, speciale nel senso elitario del termine. Tutti però lo sono nel modo in cui chiunque può diventarlo, se sceglie di non accettare la mediocrità come un destino.

Le loro storie sono storie collettive – perché ciascuno di loro ha riconosciuto come spinta per le sue scelte la responsabilità verso qualcun altro. Nessuno di loro ha costruito qualcosa nonostante gli altri, ma sempre con e per gli altri -.

Avevo pensato di concludere le mie recensioni augurandovi una buona lettura, ma non sentivo questo trasporto. Io amo le parole e mi piace l’etimologia. Una parola che ha un etimo meraviglioso, ma che è mutato in un’accezione negativa è la parola crisi. Deriva dal verbo greco κρίνω: “separare”. Era utilizzato in riferimento alla trebbiatura, alla separazione della granella del frumento dalla pula, successivamente traslato in scegliere. La crisi è quando non ci facciamo sfiorare dalla vita, non la facciamo sfilare accanto come spettatori passivi, ma l’attraversiamo, incidiamo e cerchiamo di sbagliare, migliorarci e, se possibile, di rinascere. Buona crisi.

di Alessandra Convertino