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Conviene più salvare la fabbrica, o chiuderla e riconvertirla?

Che l’ingresso dello Stato italiano nel capitale sociale dell’ex-Ilva fosse a dir poco irresponsabile ce lo hanno confermato le notizie sul report che la KPMG fornì al Governo Conte, ma che salvare il siderurgico tarantino sia un’operazione fallimentare anche dal punto di vista finanziario ce lo dicono altri dati che vale la pena considerare.
Anzitutto occorre porsi una domanda: perché, se la fabbrica fa acqua da tutte le parti, si continua a volerla salvare? Il primo e più pressante problema per lo Stato, è quello di riuscire a racimolare il miliardo e mezzo di euro che chiese alle banche italiane per finanziare il salvataggio. La garanzia della restituzione del credito è stata messa, nero su bianco, in una delle leggi salva-Ilva degli scorsi anni. Per questo vogliono salvarla ad ogni costo: per girare i profitti ai creditori.
Il problema, però, è che Ilva non fa profitti da tempo e, se li fa, è molto probabile che vengano incassati dalla controllante ArcelorMittal, poiché è a questa che il prodotto di Taranto viene venduto (un’indagine della Magistratura di Milano ipotizza sottocosto) ed è questa che poi lo rivenderebbe a prezzi di mercato ai clienti finali. Allo stato attuale, per avere profitti, Ilva dovrebbe sfornare una quantità di acciaio che non può produrre, poiché le proiezioni sanitarie effettuate da Arpa Puglia e Asl indicano che anche 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno costituiscono un rischio insostenibile per la salute dei tarantini.
Con la sentenza di Ambiente Svenduto, a questo disastroso quadro economico, si aggiunge un elemento ancora più pesante: la confisca di 2,1 miliardi di euro ai danni di Ilva in Amministrazione Straordinaria, cioè dello Stato. Senza contare che la spesa di un miliardo di euro per entrare nella compagine societaria da parte del Governo Conte decisa a dicembre 2020 potrebbe, a giusta ragione, incorrere nelle maglie della Corte dei Conti per via della sua dissennatezza. Ad ogni modo, considerando che quest’ultimo elemento non è ancora sul tavolo, tireremo le somme senza di esso e ciò che emerge è che lo Stato italiano, per restituire 1,5 miliardi a Unicredit e Banca Intesa, si trova ora di fronte al problema di doverne versare 2,1 come stabilito dalla Magistratura tarantina.
Ci sono i fondi del Recovery Plan, è vero, ma questi possono essere utilizzati in chiave sostenibile e non per rendere più produttivi degli impianti che continuano ad inquinare. Pertanto la strada per il Governo è sempre più stretta ed il dato più rilevante, ora, è che la chiusura della fabbrica e la riconversione del sito sono più convenienti del salvataggio.
Occorre, pertanto, mettere immediatamente mano ad un programma per la fuoriuscita dall’acciaio che salvaguardi i redditi coi cospicui fondi europei a disposizione. Specie se si considera che la maggior parte dei lavoratori Ilva è già a carico dello Stato attraverso il ricorso massiccio e costante alla cassa integrazione. Poi risanare e porre le basi per investimenti sani che diano occupazione e nuove prospettive per il rilancio del territorio. Il momento è quanto mai propizio e a questo bivio non si dovrà sbagliare strada. Se non ora quando?