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Autonomia differenziata: cosa prevede e perché va contrastata

La legge sull’autonomia differenziata appena varata prevede la possibilità per le regioni di negoziare col Governo la competenza su 23 materie, su 9 delle quali andranno fissati i livelli essenziali di prestazione (i cosiddetti lep). Fra le 23 ci sono: ambiente, sanità, energia, trasporti, istruzione, cultura e commercio con l’estero, oltre alle decine di loro diramazioni pratiche. L’autonomia finanziaria di ciascuna regione verrà valutata sulla base di un calcolo chiamato ‘residuo fiscale’: se una regione avrà versato più tasse di quanto gli sia stato restituito in termini di servizi pubblici, potrà trattenere parte di quelle risorse per gestire una serie di materie ora gestite dallo Stato. Le intese Stato/regioni potranno durare fino a 10 anni con possibilità di rinnovo, mentre è previsto che lo Stato intervenga in caso di inadempimenti delle regioni rispetto a norme comunitarie, ai diritti civili e sociali e in caso di pericolo per la sicurezza pubblica. La legge è stata approvata con 172 sì, 99 no e 1 astenuto.

I motivi per non essere d’accordo con la riforma sono tanti e di notevole importanza e vale la pena spiegarli. Anzitutto va detto che non si sa come i lep verranno finanziati, né sono stati ancora definiti. La legge prevede che lo saranno entro 24 mesi sulla base dello storico dei versamenti dello Stato alle regioni degli ultimi tre anni. Lo stabilirà il Governo, e non il Parlamento, prima grande criticità di ordine democratico che fa il paio con la riforma in discussione sui poteri dello Stato.

Un’altra enorme ingiustizia è che dai lep sono esclusi ambiti come le disuguaglianze sociali, la povertà e le disabilità. L’importanza dei livelli minimi di prestazione, che dovranno (forse) essere uguali in tutta la nazione, è fondamentale per garantire l’efficacia dei servizi offerti dalla pubblica amministrazione, motivo per cui conoscere quali siano sarà dirimente. Sarà altresì importante perché da questi dipenderanno i costi a carico delle regioni. Va da sé che con l’autonomia di queste ultime salterà la possibilità di livellare le distanze economiche fra regioni ricche e regioni povere, con la conseguenza che quelle più povere non saranno in condizioni di assicurare i lep ai suoi cittadini, o dovranno sperare in risorse statali aggiuntive, magari sottoforma di nuove tassazioni, senza poter intaccare quelle delle regioni resesi autonome. Tutto ciò considerando che la maggior parte delle regioni meno ricche usufruiscono già di una spesa pubblica mediamente inferiore ad altre e che, molto spesso, la ricchezza delle regioni del nord non si basa su una produttività maggiore o, come agitato dai secessionisti, sulla poca voglia di lavorare del sud, ma sul fatto che tantissime competenze emigrano per fare la fortuna del settentrione, proprio a causa delle disparità economiche esistenti. Il governatore del Veneto Zaia ha confermato questa teoria sostenendo che la riforma costituirà un’opportunità anche per il sud, perché ci potrà essere più controllo sull’efficienza delle pubbliche amministrazioni: dunque dalle nostre parti ci sono meno servizi perché ci sono sprechi e ruberie, non perché c’è meno gente che lavora e che, quindi, può pagare le tasse.

Sulle materie concorrenti fra Stato e Regione, inoltre, esiste il diritto di veto del Presidente del Consiglio che, dunque, ha totale discrezionalità sulla possibilità di concedere o meno la competenza alle regioni. Le possibili derive di una così ampia discrezionalità non c’è bisogno di illustrarle, ma anche questo è un grande classico dei cultori del decisionismo senza opposizioni.

Il principio egualitario della redistribuzione delle ricchezze verrà in definitiva minato da un provvedimento che, non a caso, è sempre stato il cavallo di battaglia della Lega, che ora lo vanta nelle regioni in cui governa. Se n’è accorta anche l’Unione Europea che ha lanciato l’allarme disuguaglianze in Italia, a dispetto dei proclami politici che mirano a tranquillizzare le regioni del Mezzogiorno.

Per tutto questo il voto dei parlamentari meridionali di maggioranza a questa legge risulta quanto mai un’operazione che risponde a logiche di partito e non all’interesse del sud che dovrebbero in realtà rappresentare con priorità. Occorre contrastare questa secessione di fatto e, senza sperare in una marcia indietro dell’esecutivo, attendere l’indizione annunciata del referendum abrogativo (servono 500.000 firme o la richiesta di 5 Consigli regionali entro il 30 settembre) per rimettere ordine ai principi di base del nostro stato di diritto.