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Mancanza di soldi, inquinamento e guai giudiziari: Ilva mai stata così vicina alla chiusura

Martedì scorso la Commissione Attività produttive della Camera ha ascoltato in audizione il presidente di Acciaierie d’Italia Franco Bernabè sulle prospettive industriali del siderurgico di Taranto.

Premettendo, come risaputo, di non avere poteri gestionali, che sono in capo al socio privato ArcelorMittal, Bernabè ha sostanzialmente, e chiaramente, definito il quadro di un declino annunciato. Una serie di grane di difficilissima soluzione, cui si sono aggiunte anche quelle giudiziarie legate alla Corte UE, al TAR e alle nuove indagini dei Carabinieri del NOE. In questo post le analizzeremo una ad una per rendere più chiara la situazione.

Il problema più grande è costituito dall’impossibilità, per l’azienda, di accedere al credito bancario per finanziare il denaro circolante. Significa che la fabbrica non ha sufficiente liquidità per sostenere la sua stessa produzione. Le poche entrate derivanti dalla vendita di prodotti finiti sono costantemente erose dall’acquisto delle materie prime e dall’adeguamento alle prescrizioni ambientali, peraltro mai ultimate.

Il finanziamento statale di 680 mln voluto dal governo Draghi ed erogato da quello Meloni si è esaurito per tamponare gli enormi debiti con ENI e SNAM e mantenere in vita la fabbrica. Ora mancano perfino i 100 milioni necessari per trovare un nuovo fornitore di gas.

Il “giro di cassa”, in precedenza, avveniva all’interno del perimetro di ArcelorMIttal, ma da qualche tempo il ramo italiano è stata deconsolidato dal gruppo principale (escluso, cioè, dal perimetro contabile della casa madre) ed AdI è rimasta isolata. Per rendere meglio l’idea Bernabè ha spiegato che il fatturato di AdI è di 3mld di euro, mentre il circolante è di 1 mld, a fronte di almeno 2,5 miliardi di euro che occorrerebbero per l’ordinaria amministrazione.

Per di più, da gennaio 2026 (la decarbonizzazione immaginata dal governo guardava a questo obiettivo temporale), non ci saranno più agevolazioni sull’emissione di CO2, e AdI sarà costretta ad acquistare certificati verdi aggravando la situazione finanziaria (occorreranno 400 mln di euro di certificati ogni 2 milioni di tonnellate prodotte).

Il 15° decreto salva-Ilva (il cosiddetto salva-infrazioni del Ministro Fitto) è, per stessa ammissione di Bernabè, un notevole aiuto per favorire la cessione al privato dei rami d’azienda, così come lo è la nuova trattativa che, lo stesso Fitto, starebbe cercando di imbastire col socio privato. Il punto, secondo Bernabè, è che per l’attuale situazione della fabbrica, non c’è più tempo. Insistere con questo salvataggio competerebbe ancora un esborso di miliardi di euro di fondi pubblici che potrebbero essere investiti sulla riqualificazione del territorio e dei lavoratori… Senza contare, poi aggiungiamo noi, che si stanno facendo i conti senza l’oste.

A tutto questo si aggiunge che il mancato sovvenzionamento per la costruzione dell’impianto di preridotto di ferro (DRI) con i fondi del PNRR (destinati alla conversione degli impianti inquinanti a idrogeno verde per almeno il 10%) ha causato anche il dirottamento in altra località del finanziamento di 88 mln di euro del progetto Hidra. Per inciso, la costruzione dell’impianto DRI non solo si è fermato all’affidamento del progetto esecutivo per mancanza di fondi, ma è oggetto di un contenzioso legale adito dalla Danieli, che ha sollevato irregolarità nell’assegnazione, senza gara pubblica, alla Paul Wurth.

Intanto i costi dell’energia sono aumentati facendo precipitare ulteriormente la situazione, tanto che Bernabé ha dichiarato davanti ai parlamentari che, allo stato attuale, l’acciaio non è più sostenibile senza fortissimi investimenti. Bernabè, infine, ha ribadito di aver messo a disposizione del governo il suo mandato non avendo più alcun margine di manovra nella vicenda.

Scrivevamo di un declino annunciato: i vari governi succedutisi, accecati dall’utopia di rilanciare la fabbrica, non hanno colto il vero senso del deconsolidamento degli asset italiani da parte di ArcelorMittal, avvenuto già nel 2021, dopo averne spolpato anche le ossa. Eppure non occorrerebbe un genio per capire che Mittal, da tempo, non ha più alcun interesse ad acquistare un vuoto a perdere come l’ex-Ilva nè, tantomeno, di lasciare che possa rilanciarsi divenendo suo concorrente sul mercato.

Nella partita a scacchi fra Mittal e Governo c’è il primo che, freddo e lucido, non sbaglia una mossa, e il secondo che, senza voler prendere consapevolezza dello scacco matto, finisce per accumulare disastri.

Un esempio è l’accordo di marzo 2020 fra AdI e DRI italia – la società di cui è pure presidente Bernabè, creata per realizzare il preridotto al servizio di due forni elettrici ancora da realizzare – spiegato in audizione: esso non prevedeva impegni del privato nel preridotto e ora AdI non può farvi fronte perché non ha accesso al credito. Gli accordi fra le parti scadono nel 2024, altro motivo per cui le banche non hanno alcuna garanzia per finanziare l’azienda.

La tempesta perfetta sull’ex-Ilva ha registrato anche il nuovo intervento dei Carabinieri del NOE in fabbrica per la questione del benzene che apre, di fatto, un nuovo fronte giudiziario con la magistratura tarantina, cui si é aggiunta la denuncia dell’Istituto Superiore per la Protezione Ambientale che ha contestato ad AdI le procedure di distillazione del carbon coke.

A chiudere il cerchio ieri anche l’intervento dirompente della Commissione Europea che, rispetto alla causa intentata dai Genitori Tarantini e sostenuta dalla Regione, ha redatto un documento in favore della Corte di giustizia EU nel quale ha rimarcato, con grande forza, due principi ineccepibili: l’autorizzazione a produrre all’ex-Ilva deve tener conto degli effetti sulla salute di tutte le emissioni e garantire il rispetto ‘immediato’ delle condizioni, senza rinvii come avvenuto per le precedenti.

Si tratta di un altro durissimo colpo alla fabbrica cui è andato in scia anche il Sindaco, che ha chiesto un rinvio dell’udienza del TAR di Lecce sulla questione benzene prevista per il 26 ottobre, proprio al fine di poter acquisire le valutazioni della Corte di giustizia UE nell’udienza del 7 novembre.

L’ex-Ilva è, evidentemente, all’angolo, non leggere la realtà per quella che è sarebbe gravissimo da parte di tutti. Occorre prenderne atto e salvare ciò che, davvero, va salvato: Taranto, i suoi abitati e i lavoratori della fabbrica.